Vi è mai accaduto di iniziare una telefonata, scrivere un messaggio, bussare alla porta di qualcuno e dire: “Scusa, ti disturbo?” – “Scusami se ti disturbo” – “Spero di non disturbarti”.
A me si, soprattutto in passato. Ancora oggi, ogni tanto questa frase esce in certe circostanze, con alcune persone. E ritrovo questo modo in tanti, soprattutto donne.
E’ un modo di scusarsi che si giustifica con una buona educazione e rispetto verso l’altro ma che cela invece qualcos’altro di meno formale e più doloroso.
E’ la paura di un rifiuto, vissuto, metabolizzato, creduto fin dalla tenera età. E dà origine ad una reazione, un modo di porsi, un modo interno di percepirsi in una posizione di svantaggio, di inferiorità, di insicurezza, di indegnità. Per cosa?
Così la questione mi viene riproposta da una cliente, che mi chiede: “Perché ho sempre la sensazione di disturbare quando faccio una telefonata per un saluto, o semplicemente quando devo chiedere un’informazione o fare una domanda? Di cosa mi dovrei scusare?
Già, di cosa?
Con questa donna iniziamo un breve viaggio nel passato in cui riaffiorano ricordi, sensazioni, parole di quella mamma che le ripeteva: “Sei nata per sbaglio, speravamo fossi un maschio”.
E andiamo ancora più indietro quando il feto già nell’utero materno, fa esperienze, percepisce emozioni, stati d’animo. Così nasce il giorno 27, il giorno in cui il padre prende lo stipendio e alleggerisce un po’ il peso del suo arrivo.
Ci si scusa di essere nati in un momento sbagliato, del sesso sbagliato. Sei arrivata a sconvolgere un equilibrio già precario, a disturbare. E questo “essere un disturbo” penetra nelle ossa, nelle cellule come un imprinting talmente radicato che ogni volta che parli, che ti esponi, che chiedi, lo devi fare scusandoti.
Accusiamo i genitori? A che serve?
La realtà è fatta di percezioni, di vissuti emotivi personali che sono incisi, impressi nelle memorie cellulari. E allora, scusarsi in anticipo serve per allontanare la paura di un rifiuto, quella sensazione di essere sgradita, sbagliata e sentirsi dire: “ Ma no, tranquilla…non disturbi”. Si mettono le mani avanti per non percepire più quel dolore.
E ora? Come se ne esce?
Ristrutturando le memorie, correggendo quelle percezioni con esperienze emozionali correttive – come le chiama la psicologia – cioè ritornando a quel primo momento con tua madre, con tuo padre e abbracciarli, accoglierli nel cuore. Sentire che sei nata perché sei stata voluta dall’incontro d’amore dei tuoi genitori, sei stata voluta dall’essere, voluta dalla vita.
E sentirti finalmente dire: “Vieni, vieni, così come sei, così come sei, sei voluta”.
E percepire che hai la stessa dignità, lo stesso diritto che hanno gli altri di vivere, di chiedere, di parlare, di desiderare, di amare ed essere amata.
E pian piano ti accorgi che quella frase non la dici più, perché non la pensi più, non la vivi più.
Quando chiami qualcuno, semplicemente dici: “Ciao, sono io”.