Ricattati da chi? Dai propri figli.
Sono i genitori preoccupati che vogliono convincere i figli puber-adolescenti a fare un percorso di psicoterapia o qualche colloquio con la psicologa per analizzare e cambiare comportamenti che loro non capiscono e non sanno gestire.
Sono genitori che lasciano ai figli, ancora bambini, le chiavi di casa. Che stanno svegli la notte perché non sono ancora rientrati, che non condividono le loro pretese, i comandi, i comportamenti aggressivi e irrispettosi ma non osano parlarne, non osano chiarire. Perché?
Perché sono spaventati dalla verità che potrebbe emergere dietro certi comportamenti e ammettere le loro debolezze e responsabilità.
Sono genitori sotto ricatto emotivo di figli che sottilmente fanno capire che: “ Se non mi dai questo, se non ottengo quest’altro, vedi che succede”.
“Perché tu mi hai messo al mondo e quindi tu mi devi. A modo mio”.
E i genitori sono terrorizzati di intervenire in qualsiasi modo. Hanno paura che scappino di casa, che si suicidino. Già il tabù del suicidio. Solo pronunciarlo, mette paura. Cosi non impongono regole nè orari da rispettare, in una sorta di soggezione che impedisce loro di esercitare con autorevolezza la funzione genitoriale.
I figli sentono che i genitori sono deboli, che hanno paura, sentono se in loro c’è o non c’è un interesse emotivo verso di loro. Sono genitori che si comportano come figli, che fanno richieste d’amore da figli, genitori assenti emotivamente, occupati a risolvere problemi personali, economici, sentimentali. A loro basta guardare i risultati a scuola. Se va bene, è tutto normale.
Non si intromettono, non si immischiano della loro vita emotiva e sociale per rispetto della privacy, non controllano il cellulare per la privacy, non chiedono con chi escono, chi frequentano, dove vanno per la privacy. La privacy di figli che hanno appena 12-16 anni e ci si ritrova dentro una trappola da cui non si sa più come uscire.
Il ricatto bisogna prima ammetterlo, riconoscerlo per poi liberarsene. Come?
Con una presa di coscienza e un’assunzione di responsabilità.
Con un’educazione in cui si riconoscano e si rispettino ruoli e posizioni, dove chi viene prima va rispettato da chi viene dopo, dove il genitore fa il genitore e il figlio fa il figlio.
Con una nuova attenzione ai sentimenti, insegnando a parlare di come ci si sente, ad ascoltare con il cuore, a guardarsi e “vedersi”, cogliendo i segnali di una sofferenza o di un disagio.
Un’educazione in cui il figlio possa confidarsi senza sentirsi giudicato, libero dalle aspettative, dalle pretese e dalle proiezioni dei suoi genitori. Sentire che può fidarsi e quindi costruire quella personale fiducia di base che non si trova in nessun altro all’infuori di se stesso.
Ma per fare questo bisogna essere veramente “genitori”, che non è un fatto biologico ma una dimensione psicologica ed emotiva, un livello di coscienza che si costruisce e si raggiunge attraverso un profondo lavoro personale.