E’ come un amore, mi dicono. Non ce la faccio a non farlo. C’è una voce che mi dice fallo, così non ci pensi più.
Negli ultimi mesi, sto notando un aumento di autolesionismo nei giovani di 14-17 anni.
I genitori per lo più non sanno niente. Li portano ad un colloquio perché notano una forma di malessere che li preoccupa. Una tristezza, un’eccessiva aggressività, l’isolamento sociale, una difficoltà scolastica, i rapporti familiari peggiorati.
E dopo un pò, questi giovani mi fanno un grande dono: mi aprono con timore e prudenza il loro dolore: si tagliano braccia e gambe, con forbicette o lamette.
Non dicono niente a nessuno perché è una cosa privata, un segreto da custodire, una confidenza intima. Ma nel raccontarloi, sono anche pronti e desiderosi di liberarsi di quel dolore che non sopportano più, che li annienta, che sta togliendo loro la voglia di vivere.
Tutti nella mia piccola e limitata casistica confessano le stesse cose: un senso di vuoto che li circonda, la voglia di starsene da soli, tagliarsi per liberarsi di un peso, di una tensione. “Dopo sto meglio” – confessano. E poi la sensazione di intimità con il proprio corpo, con la ferita, con il dolore che provano che però li rende vivi e presenti. “ Mi taglio per sentire qualcosa”.
Un senso di colpa, di inadeguatezza, il sentirsi un peso, sono spesso i sentimenti che confessano.
E poi tanta rabbia verso i genitori o uno dei due. Il più delle volte il padre che rimproverano di essere assente e di non amarli come vorrebbero loro.
In alcuni casi i genitori non si accorgono, troppo spaventati da un malessere così profondo. Non lo accettano, non lo vogliono vedere perché forse significherebbe guardare dentro il proprio dolore, la propria insoddisfazione, le mancate realizzazioni, le proprie frustrazioni e i conflitti irrisolti. Significherebbe ammettere che forse c’è qualcosa che non va, che forse quella vita non è così vera ma una copertina patinata per mostrare all’esterno una perfezione e una normalità che non esiste.
Ma curare una ferita, bisogna prima guardarla. E collaborare tutti insieme.
Molto è stato detto sull’autolesionismo e le possibili cause ma come si sa, scoprirle, ammesso che siano quelle giuste, non sembra risolvere o allentare il fenomeno.
Ogni caso va visto a sè. Ogni ragazzo/a è diverso così come la sua famiglia. Ognuno con la sua sensibilità con le proprie reazioni , ognuno con la propria personalità e la propria forza.
Ma una cosa in comune l’ho notata in tutti: l’assenza emotiva del padre, conflitti tra genitori, interruzioni di gravidanze dimenticate o rimosse, e morti tragiche e lutti irrisolti in famiglia.
Questi giovani perciò si dissociano dalle loro emozioni ma ne ricercano la presenza a modo loro, controllando la soglia del dolore.
Lavorare soltanto con il giovane non è sufficiente. C’è bisogno di una nuova e rinnovata presenza e partecipazione attiva dei genitori. A volte è uno solo che riesce guardare mentre l’altro scappa e rimane assente.
I genitori sono arte integrante del benessere di un figlio. Sono loro i veri e i primi terapeuti. Ma devono essere pronti a guardare ciò che non va, con coraggio. Perché il malessere di un figlio è una forma d’amore amore che va vista ed è un’opportunità per tutti di migliorare, di aprire il cuore, di abbracciarsi, di comunicare in modo nuovo, di dirci quello che per anni per pudore e per vergogna non ci siamo mai detti..
Poi però, la vera azione e l’atto di volontà spetta al figlio, alla figlia.
Cioè guardare chi manca nel loro cuore e accettarlo così com’è. Come ha fatto questa ragazza di 15 anni. “Caro papà, da oggi la smetto di cercarti e di abbracciarti in questo modo”.