Ferma ad un semaforo, accanto a me, sento urlare una ragazza con quella che presumo sia la madre. Ce l’ ha con i medici, con l’assistenza sanitaria, con le tariffe per gli esami troppo cari mentre lei non ha i soldi per pagare. Uscivano probabilmente dallo studio medico polispecialistico accanto.
Proseguendo per la mia strada, mi sono immersa in una riflessione che condivido con voi.
Oggi la malattia e la figura del malato sono molto considerati. Non puoi criticare perché rischi di essere attaccato da tanti che su quella malattia hanno costruito una loro personale strategia esistenziale.
Che significa?
Che attraverso la malattia si può vivere un protagonismo sociale che non si è saputo conquistare in altro modo, serve ad ottenere un’affettività, un’attenzione, un’importanza, una considerazione che è stata persa o mai ricevuta.
E’ una strategia spesso inconsapevole ma perdente e fallimentare.
Ovviamente non parlo di tutte le persone ma solo di alcune che si riconoscono per atteggiamento e modo di parlare, come questa ragazza.
Non hanno un vero interesse a guarire o a stare meglio perché dovrebbero assumersi quelle responsabilità che tutti noi adulti abbiamo. E pensano: “Se guarisco poi cosa faccio”? Dovrei mettermi a cercare un lavoro come tutti, pagare un affitto, le bollette, risolvere i problemi…..Non so se mi conviene”.
Quindi spesso le cure per loro non fanno effetto e il medico, lo psicologo o l’amico che insistono a volerlo curare, si sentono impotenti.
Fare il malato può essere un ruolo o un copione.
Viene scelto in quelle fasi della vita che impongono nuovi stili e nuovi modi di essere, di amare, di relazionarsi; impongono cambiamenti, adattamenti.
Per esempio: allontanarsi da un contesto in cui non si sta più bene, cambiare certe amicizie o frequentazioni, cercarsi un lavoro, interrompere una relazione infelice, cambiare casa.
Sono momenti difficili che richiedono un livello di maturità che non si ha. E’ più comodo e più facile essere assistiti dalla società, dalle istituzioni, così come faceva la mamma quando eravamo piccoli.
“Ma io sto male. Non posso, non ce la faccio”.
E gli altri giustificano, non attaccano perché il malato è “intoccabile” e lui rimane “innocente”, con la coscienza pulita.
Ma dietro quest’atteggiamento si nasconde l’arroganza, la prepotenza di volere che le cose si pieghino al proprio volere.
Nasce nell’infanzia e si chiama “viziamento affettivo” cioè riceve un’ importanza esagerata e sproporzionata rispetto alla posizione familiare che ha.
Questa ragazza non avrà una vita facile perché non accetta di pagare la sua maturità, la sua salute, la sua libertà.
Si, pagare.
Perché bisogna pagare le cure se e quando se ne ha bisogno perché la salute e la qualità della vita si scelgono, si costruiscono, si mantengono facendo scelte a volte dolorose, difficili e scomode. Perché non tutto è dovuto nella vita.
Perché la vita non conosce la buona o cattiva fede, la buona o cattiva coscienza. La vita ha una sua logica che risponde a leggi universali che non abbiamo fatto noi.
Quindi se vi capita di incontrare persone che sono sempre arrabbiate e che si lamentano della loro situazione ma non fanno niente per cambiarla, allontanatevi.
Perché il vostro benessere e i momenti di gioia saranno per loro un veleno che inquinerà prima o poi anche voi.